26.08.2020 -
Misure congiunturali e politica monetaria dovrebbero mitigare le conseguenze economiche della crisi del coronavirus, a costo però di far impennare il debito dei vari stati.
La crisi del coronavirus costa. E anche parecchio. Per contrastare le ricadute economiche della pandemia, Stati e banche centrali stanno varando enormi programmi di aiuti e di stimolo all’economia e politiche economiche ultra-accomodanti. A pagare il conto saranno, per forza di cose, le generazioni a venire. Il punto è dunque: cosa possiamo fare per evitare di aggiungere altri zeri all’assegno da versare?
Di fatto uno Stato ha quattro possibilità per liberarsi dei debiti. La prima è di gran lunga la migliore perché non presuppone sacrifici e consiste nel ripagare il debito mediante la crescita. Quando un’economia cresce, aumentano anche il gettito fiscale e il numero degli occupati. Al contempo calano le spese sociali – ad esempio le indennità di disoccupazione – o i finanziamenti alla cassa previdenziale obbligatoria. Con i fondi in eccesso si pagano i debiti, e il rapporto fra deficit di bilancio e produzione economica diminuisce (cioè migliora). Questo in linea puramente teorica. In pratica, purtroppo non è così che funziona. I tassi di crescita reale nei paesi industrializzati precipitano da decenni e sono a livelli decisamente troppo bassi per riuscire ad abbattere le montagne di debiti in futuro.
La debole crescita delle nazioni industrializzate ha radici di natura strutturale, come il continuo invecchiamento demografico o il fatto che tutte le soluzioni più comode per migliorare il livello di welfare e sfruttare i vantaggi della globalizzazione sono già state spremute fino all’osso. Inoltre, più debiti si accumulano e più è difficile saldare quelli esistenti. Se si spende gran parte delle entrate solo per coprire gli interessi passivi e rimborsare i debiti dovuti, vengono a mancare le risorse da dedicare ad altro. Come investimenti e ricerca.
La seconda alternativa per l’estinzione dei debiti è decisamente meno indolore. Uno Stato potrebbe migliorare le entrate aumentando le tasse e tagliando drasticamente la spesa pubblica. Per funzionare, un simile regime di austerità dovrebbe necessariamente riguardare la grande maggioranza della popolazione; i tagli dovrebbero applicarsi a tutte le categorie di persone senza eccezioni, e i risultati dovrebbero essere visibili. Altrimenti le proteste in piazza sono assicurate.
E se anche gran parte della popolazione approva la scelta, non è detto che una politica di austerità radicale porti effettivamente ai risultati auspicati. Se nel frattempo non si rafforza la competitività dell’economia nazionale, i tagli alla spesa pubblica servono a poco.
In più, molti piani di risanamento si limitano a risollevare le singole economie nazionali, senza considerare le ripercussioni. Se uno Stato A sceglie la via dell’austerity, in un mondo globalizzato come il nostro ci saranno conseguenze anche per gli Stati B e C. E se tutti i paesi in difficoltà finanziarie decidono di risparmiare, rischiamo di scivolare in una fase di Grande Depressione come negli anni ‘30.
La terza opzione aiuta di sicuro gli Stati a risolvere i problemi di debito; almeno temporaneamente e a costo di perdere la faccia sui mercati dei capitali: si tratta della dichiarazione di fallimento. Lo Stato potrebbe semplicemente non pagare: o perché non è in grado di farlo per motivi economici, o perché si rifiuta per ragioni politiche. In questo caso si avrà un massiccio taglio del debito, alias “haircut”, come avvenuto per la Grecia alcuni anni fa. La storia ci insegna che i tagli al debito non sono una soluzione a lungo termine se non accompagnati dalle dovute riforme: senza di esse la situazione tornerà grossomodo come prima e il problema sarà risolto solo in apparenza perché l’espediente durerà poco.
Rimane quindi la quarta e ultima alternativa: le banche centrali come prestatori di ultima istanza. Pur essendo istituzioni sulla carta indipendenti e al di sopra delle parti (hanno il divieto di finanziare gli Stati!), in realtà prestano soccorso alla politica ormai da tempo, anche se i rappresentanti su entrambi i fronti si ostinano a sostenere il contrario. Ma i dati di fatto li smentiscono da un pezzo. E questo vale sia per la banca centrale USA Federal Reserve (Fed) che per la Banca Centrale Europea (BCE). E soprattutto per la nipponica Bank of Japan: il Giappone ha imboccato la strada verso nuove dimensioni del debito già vent’anni fa.
Fatto sta che sia la BCE che la Federal Reserve sono andate “all-in”: ad esempio il presidente della Fed, Jerome Powell, ha annunciato di recente un programma di acquisto illimitato di titoli che consente alla banca centrale di acquistare titoli di Stato USA e titoli garantiti da ipoteca senza limite alcuno. E già nell’estate del 2012 l’allora presidente della BCE, Mario Draghi, si era detto disposto a fare “tutto il possibile” per salvare l’Eurozona consegnando alla storia il suo celebre “Whatever it takes”.
Negli ultimi anni lo abbiamo detto e ripetuto fino alla noia: viste le enormi montagne di debiti su scala mondiale, riportare i tassi a livelli “normali” è praticamente impossibile. Come abbiamo scritto nelle nostre relazioni, il fatidico “point of no return” - il punto da cui non si può tornare indietro - le grandi banche centrali lo hanno superato da un bel po’.
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