16.02.2023 - Julian Marx

Tutti in fila


Tutti in fila

Negli Stati Uniti i banchieri centrali stanno contrastando l’inflazione con grande determinazione, ma soprattutto all'unisono. Questa coesione è un bene o un male?

Negli Stati Uniti si ha come l’impressione che negli ultimi anni i banchieri centrali della Federal Reserve (Fed) non abbiano quasi mai avuto opinioni contrastanti. Tra gennaio 2020 e gennaio 2023, il Federal Open Market Committee (FOMC), l’organo decisionale più importante per la politica monetaria statunitense, ha preso in totale 27 decisioni sui tassi d’interesse (di riferimento). Solo tre di queste non hanno ottenuto l’unanimità. Durante il triennio sono stati espressi 286 voti, di cui solo quattro contrari alle decisioni che ne sono sortite. 

In confronto, il comportamento dei votanti nel Regno Unito appare piuttosto “disorganico”. Nelle riunioni della Bank of England aventi a oggetto i tassi d’interesse di riferimento, lo scorso anno sono stati espressi 72 voti, di cui 20 contrari. Eppure una cultura del dibattito così aperta non sarebbe forse auspicabile anche nel FOMC statunitense, la cui politica monetaria ha ripercussioni in tutto il mondo? 

Le ragioni dell’uniformità 

I motivi che hanno spinto i banchieri centrali statunitensi a votare in modo così uniforme sono evidenti. Durante la pandemia, l’obiettivo era evitare una recessione di proporzioni storiche. Quando i rischi della pandemia si sono affievoliti, è seguita una dinamica inflazionistica fuori dal comune, che per ampie fasce della popolazione è stata un’assoluta novità. In questo contesto di mercato, la risolutezza del FOMC nel voler combattere l’inflazione a tutti i costi è riuscita a inviare un segnale importante. Infatti, se la gente crede nelle capacità della banca centrale, le aspettative inflazionistiche rimangono saldamente ancorate, limitando la probabilità di effetti secondari in grado di autoalimentarsi. In particolare, le richieste salariali potrebbero risultare più moderate.  

Allo stesso tempo, però, un comportamento di voto così uniforme può sottintendere anche una “monocultura” di politica monetaria in cui non esistono profonde differenze di opinione tra i banchieri centrali. Tuttavia, in periodi di grande incertezza, un orientamento di politica monetaria unilaterale comporta dei rischi. E quanto sia incerto il panorama attuale lo dimostrano chiaramente anche le previsioni d’inflazione della Banca Centrale Europea: nel giro di un anno, la BCE ha alzato le stime di inflazione per il 2023 dall’1,8% al 6,3%.  

Lezioni dal passato 

Anche la Federal Reserve statunitense ha commesso degli errori di valutazione in passato. Il 16 settembre 2008, un giorno dopo il fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers, i funzionari della Fed – seppur consci dei gravi rischi derivanti dal sistema finanziario – hanno lasciato il tasso d’interesse di riferimento invariato al 2%. All’epoca, infatti, si aspettavano una ripresa della crescita già nel 2009, con tutti gli annessi e connessi in termini di inflazione. Ma appena un mese dopo, questa valutazione si è rivelata errata. Nell’ottobre 2008, il FOMC ha abbassato il tasso dei fondi federali all’1% e poi di nuovo a dicembre nel range appositamente creato dello 0-0,25%. Nonostante la corsa ai ripari, nel 2009 l’economia statunitense ha subito una contrazione del 2,6%. Un errore di valutazione come quello commesso nel settembre 2008 potrebbe ripetersi in qualsiasi momento. 

Il futuro è certamente incerto 

Per ora la Federal Reserve statunitense è ancora in modalità “rialzo dei tassi”. Il 1° febbraio ha aumentato i tassi d’interesse di riferimento a un intervallo compreso tra il 4,5% e il 4,75%, ventilando la possibilità di ulteriori incrementi. Pertanto, la lotta all’inflazione continua. E senza dubbio serve. Ma con i rialzi dei tassi d’interesse cresce anche il rischio che la politica monetaria abbia effetti collaterali indesiderati. Se gli interventi dei banchieri centrali si riveleranno più restrittivi del necessario, il tanto auspicato “atterraggio morbido” potrebbe trasformarsi in una (grave) recessione. 

Per capire fino a che punto l’impatto della politica monetaria statunitense si è già concretizzato, basta osservare l’espansione della massa monetaria. Nel dicembre 2022, il tasso di crescita annuale della massa monetaria M2 degli Stati Uniti si attestava al -1,3%: il primo calo dal 1970. Tenendo conto dell’inflazione dei prezzi al consumo statunitense, la massa monetaria si è addirittura ridotta di circa il 7% in termini “reali” (si veda Grafico).  

Riduzione della massa monetaria 
Calo storico della massa monetaria M2 statunitense

Da un lato, questo crollo è stato preceduto da un’eccedenza storicamente elevata della massa monetaria allo scoppio della pandemia. Dall’altro lato, la recente politica monetaria dovrà restare restrittiva ancora per un bel po’ se vuole interrompere la dinamica inflazionistica. Il che potrebbe aggravare ulteriormente l’onere sull’economia reale. Resta da vedere con che forza l’economia reagirà all’attuale ritiro della liquidità.  

Questa situazione non trova eguali nella storia. Di conseguenza, non è per niente facile individuare la “giusta” politica monetaria. In ogni caso, nel contesto inflazionistico odierno, il costo di una decisione “sbagliata” rischia di rivelarsi ben più caro che in passato. Ecco perché sarebbe ancora più importante che nel processo decisionale confluissero opinioni e scenari diversi.  

Il FOMC dovrebbe adottare una visione differenziata, anche se i risultati di voto della Fed dovessero confermarsi uniformi. L’approccio graduale e dipendente dai dati alle decisioni di politica monetaria è alla base della riflessività della stessa politica monetaria, che andrebbe costantemente adattata alle situazioni mutevoli in una fase altamente dinamica di sviluppo economico e dell’inflazione. In questo modo, si eviterebbero il più possibile errori grossolani di politica monetaria. Perché la posta in gioco è alta. 

 

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