15.06.2023 - Pablo Duarte

Quo vadis, politica monetaria?


Quo vadis, politica monetaria?

I tassi d’interesse di riferimento hanno raggiunto nuovi record (temporanei) e l’inflazione sta rallentando. Cosa sta succedendo? Facciamo il punto della situazione. 

La politica monetaria è una questione delicata, soprattutto nei periodi di forte inflazione . Se le banche centrali vogliono vincere la lotta all’inflazione, non possono aumentare i tassi d’interesse troppo lentamente. D’altro canto, però, un rialzo eccessivo dei tassi – soprattutto dopo una lunga fase di tassi d’interesse zero e negativi – comporta alcuni rischi ed effetti collaterali: la crescita economica crolla e le fragilità del sistema finanziario vengono messe a nudo.

Il problema è che gli effetti di una politica monetaria più restrittiva si manifestano sempre con un certo ritardo. Le economie sono molto complesse, ci sono interazioni e le semplici formule non bastano. Nel dubbio, i banchieri centrali farebbero meglio ad aspettare e vedere che effetti sortiscono le loro misure.

È esattamente ciò che ha fatto di recente la Federal Reserve (Fed) statunitense, che nell’ultima riunione ha evitato di alzare ulteriormente i tassi d’interesse, senza tuttavia escludere altri incrementi in futuro. La Fed è già un passo avanti rispetto alla Banca Centrale Europea (BCE), che il 15 giugno ha aumentato i tassi d’interesse di riferimento di 0,25 punti percentuali. Ma la politica monetaria più restrittiva sta funzionando, con rischi ed effetti collaterali accettabili? A questo proposito, vale la pena soffermarsi su alcuni punti.

La pressione inflazionistica persiste

La pressione inflazionistica persiste, sia negli Stati Uniti che nell’Eurozona. Certo, ultimamente i tassi d’inflazione sono diminuiti, soprattutto a fronte di un calo dei prezzi dell’energia e dei beni di consumo sulla scia di una normalizzazione delle catene di approvvigionamento. Diversa invece è la situazione per i prezzi dei servizi, che continuano ad alimentare l’inflazione anche a causa di una domanda sostenuta, della crescita dei salari e di un’occupazione solida.

Specialmente negli Stati Uniti, il mercato del lavoro rimane contratto e i posti vacanti sono in calo da un anno, senza che il tasso di disoccupazione aumenti. La forte crescita dei salari, superiore al 5%, dimostra che le ripercussioni del giro di vite monetario non hanno ancora raggiunto il mercato del lavoro.

Nell’Eurozona, l’inflazione core resta elevata: ad aprile il tasso “supercore”, che considera solo i beni che non si muovono con il ciclo economico, ha raggiunto il 6,3%. L’inflazione è davvero ostinata. A nostro avviso, se la politica monetaria non farà un passo avanti, i tassi d’inflazione negli Stati Uniti e nell’Eurozona finiranno per stabilizzarsi a un livello notevolmente superiore al target dichiarato del 2%. Per lo meno se non si verificheranno nuove crisi a livello geopolitico, nel sistema finanziario o in settori che al momento non destano alcun sospetto.

L’economia europea sta già dando i primi segni di cedimento, in parte attribuibili agli effetti negativi dell’inasprimento monetario. La produzione industriale della zona euro nel complesso è leggermente superiore al livello di gennaio 2020, ma le maggiori economie al suo interno hanno contribuito poco alla ripresa. Sia in Germania che in Francia, infatti, la produzione industriale è ancora al di sotto dei livelli pre-pandemici e non cresce da diversi mesi (il che è certamente dovuto anche a problemi strutturali).

Non è tutto: la domanda di credito nell’Eurozona sta precipitando. Almeno questo è quanto suggerisce l’indagine “Bank Lending Survey (BLS)” della BCE, che definisce la differenza tra la quota di banche che segnalano un aumento della domanda di credito e quelle che osservano un calo. Per il secondo trimestre del 2023, la domanda netta di credito da parte delle imprese è scesa da -12% a -38%. La diminuzione dei crediti erogati è indice che la crescita economica sta rallentando di conseguenza.

Politica e politica monetaria

In ogni caso, la BCE è chiamata a svolgere un compito immane: deve prendere decisioni di politica monetaria per 20 paesi diversi. L’area valutaria è estremamente eterogenea, con tassi d’inflazione che vanno dal 3% in Spagna all’11% in Estonia. Inoltre, la politica monetaria dell’Eurozona è influenzata dalla politica fiscale dei vari paesi. I costi di rifinanziamento di Stati Membri altamente indebitati, come l’Italia e la Spagna, giocheranno probabilmente un ruolo importante nel determinare quando la BCE smetterà di alzare i tassi d’interesse.

I banchieri centrali europei hanno spesso preso spunto dalle azioni della Fed statunitense e hanno ripetutamente sottolineato come l’omologa d’oltreoceano agisca in modo dipendente dai dati. Quindi, se la Fed farà una pausa (come annunciato), dopo qualche tempo anche la BCE potrebbe seguirne le orme. Ad ogni modo, nel medio termine i tassi d’inflazione saranno la variabile più importante a cui si orienterà la BCE, che però potrebbe anche accettare un target d’inflazione più elevato (nell’ottica di quanto appena esposto), pur senza dichiararlo esplicitamente.

E la Fed? Ha ventilato la possibilità di ulteriori rialzi dei tassi d’interesse. Se le pressioni inflazionistiche non si attenueranno, i tassi d’interesse potrebbero tornare a salire nella seconda metà dell’anno, anche se finora questo scenario è il meno scontato dagli operatori di mercato.

Questo ci riporta all’essenza della politica monetaria, che in una certa misura funziona sempre per tentativi. Resta da vedere che effetto avrà la strategia di inasprimento. Data la complessità della questione, tendiamo a non fare previsioni troppo precise, ma preferiamo piuttosto aspettare, evitando di puntare tutto su un numero che potrebbe non uscire mai. 

L’autore di questo testo è il Dr. Pablo Duarte, Senior Research Analyst del Flossbach von Storch Research Institute.

 

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