19.08.2022 - Philipp Vorndran

Quello che non sappiamo


Quello che non sappiamo

A una crisi ne segue un’altra e poi un’altra ancora, con effetti spesso difficili da valutare. Cosa significa tutto questo per gli investimenti? 

Il mondo è un’entità complessa. Almeno è così che lo si percepisce al momento: guerra, pandemia, inflazione – una moltitudine di (focolai di) crisi e di problemi che ne generano altri. Forse anche la prossima crisi economica. 

Grandi o piccole che fossero, di crisi ce ne sono sempre state. Ad essere cambiata è la velocità del flusso di informazioni su questi eventi, delle notizie presentate, commentate e interpretate dai canali più disparati, con ovvie conseguenze sui movimenti di borsa.  

Raffica di informazioni 

Con i moderni mezzi di comunicazione, le notizie si susseguono in frazioni di secondo e sono accessibili (pressoché) a chiunque e in qualunque momento. Si riversano sugli utenti dei media come la pioggia in un violento temporale estivo: la tempesta delle “breaking news”! Dal punto di vista di un investitore, dietro tutte le notizie – o le vecchie informazioni “riconfezionate” – aleggia una domanda angosciante: che ne sarà ora del mio denaro? 

Fortunatamente (o meglio, sfortunatamente!) ci sono persone che si occupano di queste cose ogni giorno, le analizzano, guardano dietro le quinte e sanno come distillare le loro conoscenze in previsioni. 

È così che rispondono a domande come: dove sarà il Dax tra dodici mesi? E il prezzo dell’oro, del petrolio o del rame? Come si muoveranno i tassi d’interesse da qui a fine anno? O, più in generale, cosa possiamo aspettarci dai mercati azionari globali nelle prossime settimane? Viste le notizie, saliranno o scenderanno? C’è da impazzire... 

Il problema (o il bello!) è che nessuno lo sa. Le previsioni puntuali sono un goffo tentativo di rendere meno spaventosa l’incertezza latente che la vita – e quindi l’investimento monetario – porta naturalmente con sé. Fa parte del folklore delle borse: un rituale caro a molti, ma del tutto inutile per gli investitori monetari. E come tale andrebbe anche considerato!  

I profeti di sventura se la passano bene 

Il problema si pone quando gli investitori si fidano ciecamente delle previsioni e le usano come base per definire le loro strategie di allocazione. A quel punto dovrebbero vivere in una permanente “modalità crash” perché in genere i media diffondono platealmente le previsioni dei profeti di sventura, che occupano quindi la maggior parte dello spazio informativo. 

Perché? Perché le loro teorie si vendono bene. Inoltre, il ruolo del profeta di sventura è particolarmente apprezzato, perché la sua “altezza di caduta” è di gran lunga inferiore rispetto a quella dell’ottimista. Prima o poi, chi si aspetta il peggio finisce per avere ragione. Prima o poi, da qualche parte, si scatenerà il finimondo. E lui potrà dire: l’ho sempre saputo! A quel punto di solito poco importa che abbia azzeccato o meno i fattori scatenanti! 

Per l’ottimista, invece, è molto più difficile: viene subito bollato come un irriducibile “santone guaritore” – un Giannino Guard’in aria. In sostanza non può mai avere ragione, perché in fin dei conti ogni rialzo dei prezzi non è che una fase preliminare del crollo successivo, un’esagerazione temporanea o l’ingannevole rally di un mercato orso. 

I media amano poi parlare del “botto” che deve ancora arrivare o del collasso totale del sistema finanziario. Una “finale” dietro l’altra. Quasi da rendere noioso persino il fitto calendario di “supercoppe” del calcio moderno. Più uno scenario suona drammatico, più compare sulle prime pagine dei giornali e guadagna clic sul web e – questo è il vero problema – inquieta gli investitori.  

Cosa accadrebbe se...? 

Nessuno può escludere un “cigno nero” (o grigio), come il devastante incidente di Fukushima, in Giappone, nel 2011. Un evento catastrofico potrebbe abbattersi in qualunque momento. Non dobbiamo illuderci. Ma questa incertezza, che in inglese chiamano “event risk”, non dovrebbe mai influenzare una strategia di investimento a lungo termine. 

Durante i miei studi di geografia negli anni ‘80, i professori ci mettevano sempre in guardia da un super terremoto in California. Già alla fine degli anni ‘60, gli scienziati avevano riconosciuto che la faglia di Sant’Andrea, che corre per ben 1.300 km da nord a sud attraverso la California, è il confine di due placche continentali, che rendono la zona inevitabilmente sismica. 

Dopo quella constatazione, la domanda per chi abita nella regione non è stata più se, ma quando si verificherà il prossimo mega-terremoto. A quel punto, ovviamente, l’intera Silicon Valley crollerebbe e con essa anche le borse. 

Sarebbe senza dubbio una catastrofe umana ed economica! Se solo come investitore non avessi investito lì per decenni... 

Eppure, la Silicon Valley è ancora in piedi. 

 

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