18.08.2022 -
L’euro è sceso al livello più basso contro il dollaro USA dal 2002. La moneta unica è sulla via del tramonto?
Un euro per un dollaro: di recente le due valute hanno (nuovamente) raggiunto la parità. Dall’inizio dell’anno la moneta unica ha perso circa il 12% del suo valore. Per chi trascorrerà le vacanze estive negli Stati Uniti, il conto potrebbe farsi piuttosto salato. Chi invece ha investito negli USA ne ha tratto beneficio, o almeno è riuscito a compensarne in parte le perdite.
Ma qual è il futuro della nostra moneta comune? Davvero viaggia sulla via del tramonto, come ripetono quasi all’unisono i vari media? In effetti, a prescindere dai tassi d’interesse nettamente più elevati negli USA che nell’Eurozona, i buoni motivi per ritenere l’euro una valuta debole non mancano, anzi si moltiplicano col passare del tempo.
La zona euro nasce sostanzialmente dal tentativo di riunire svariate aree economiche con esigenze differenti sotto un unico “cappello” di politica monetaria. Con tutti i problemi che ne derivano. Qualche anno fa, ad esempio, è bastato un “peso piuma” – economicamente parlando – come la Grecia per mettere la nostra area monetaria letteralmente alle corde. Nel frattempo l’Italia, che invece è un peso massimo dell’Eurozona, è alle prese da decenni con bassi livelli di crescita economica e un ingente debito pubblico. C’è quindi terreno fertile per potenziali conflitti da non sottovalutare.
La Banca Centrale Europea (BCE) è chiamata a tenere uniti gli interessi dei paesi membri dell’euro. Una politica monetaria che minaccia di anteporre al suo mandato primario – ossia la stabilità dei prezzi – altri obiettivi secondari come la lotta alla frammentazione rischia però di non raccogliere grandi consensi. Almeno a prima vista. Perché ovviamente dalla prospettiva della BCE la questione è ben diversa: l’autorità monetaria può infatti adempiere il suo mandato della stabilità dei prezzi solo se l’euro regge. In quest’ottica, la lotta alla frammentazione nell’Eurozona merita la massima priorità.
Critiche a parte, vale la pena di ricordare anche i punti di forza dell’euro. L’Eurozona è una delle aree economiche più produttive al mondo. Lo scorso anno i suoi circa 340 milioni di cittadini (pari a meno del 5% della popolazione mondiale) hanno generato qualcosa come il 15% della produzione economica globale.
A testimoniare la (relativa) solidità dell’economia europea è anche il saldo positivo delle partite correnti conseguito negli ultimi anni: dal 2012 l’area euro (a differenza degli USA) ha sempre chiuso in surplus; negli anni fra il 2013 e il 2021 l’eccedenza si è persino attestata all’1,9% e oltre della produzione economica annuale. Ad ogni modo, visti i recenti rincari di petrolio e gas, la bilancia delle partite correnti è destinata a peggiorare in prospettiva futura, anche se nel primo trimestre è risultata ancora positiva a +0,7%.
Ci sono però ben poche alternative all’Eurozona. Ad esempio, la Cina ha una capacità economica indiscussa e rappresenta un mercato di sbocco decisamente appetibile, ma lì ogni investimento è legato al volere di un regime autocratico. Negli anni passati si sono viste non poche incrinature nel principio della certezza del diritto: sarà quindi sempre più difficile per Pechino riuscire ad affermare il renminbi (in Occidente) come valuta di riserva alternativa al dollaro US.
Anche il Giappone presenta alcuni vantaggi economici grazie a un’infrastruttura funzionante e a tassi d’inflazione relativamente bassi. Ma anche questa economia si trova ad affrontare problemi strutturali, come l’invecchiamento demografico (il 29% della popolazione locale ha più di 65 anni, contro il 22% della Germania e una media del 17,5% nei paesi OCSE) e il sovraindebitamento (il debito pubblico si aggira intorno al 260% del prodotto interno lordo (PIL)). Per non parlare della politica monetaria ultra-espansiva, senza pari da decenni.
Alcune valute sarebbero quindi fondamentalmente interessanti (anche per fini di diversificazione ), ma non tutte sono un’alternativa migliore rispetto all’euro – a parte forse il dollaro.
A breve termine, il dollaro US sarà favorito dal previsto (ulteriore) aumento dei tassi d’interesse e dalle ripercussioni del conflitto in Ucraina. Quella statunitense è di fatto l’economia maggiore e più produttiva al mondo, ma va detto che la bilancia delle partite correnti è perennemente in deficit e ciò non aiuta un rafforzamento strutturale del biglietto verde. Dopo la crisi finanziaria, il disavanzo delle partite correnti USA ha oscillato prevalentemente fra il 2% e il 3% del prodotto interno lordo (PIL). Il dollaro deve quindi la sua solidità a lungo termine soprattutto all’attrattiva che il mercato dei capitali statunitense esercita da decenni.
Attenzione però a proiettare automaticamente nel futuro la recente solidità del dollaro: alcuni sviluppi – come l’aumento dei tassi d’interesse negli USA – dovranno inevitabilmente invertire la rotta quando ad esempio inizieranno a soffocare il mercato immobiliare statunitense o a frenare la crescita economica generale. Inoltre gli Stati Uniti hanno anche problemi interni che rischiano di minare l’appetibilità del loro mercato dei capitali. Ad esempio questioni di ordine politico: chi avrebbe mai immaginato, prima del 6 gennaio 2021, che un presidente statunitense avrebbe deliberatamente avallato un assalto a Capitol Hill e contestato la legittimità dei risultati elettorali solo per il proprio tornaconto?
Un’altra nota dolente è la situazione del debito: l’indebitamento complessivo (famiglie, aziende e Stato) è ancora leggermente superiore rispetto all’Eurozona. Inoltre, di recente anche la Banca centrale statunitense ha dimostrato in più occasioni di essere pronta a superare i limiti della politica monetaria. Non proprio un’iniezione di fiducia.
In conclusione, per quanto riguarda l’allocazione valutaria, se prima gli investitori avevano l’imbarazzo della scelta oggi si ritrovano a scegliere il minore dei mali. Infatti, per quanto male se la possa passare l’euro, in termini di fondamentali non esiste una valida alternativa che convinca fino in fondo. Nemmeno il dollaro, che intorno alla parità sta già probabilmente scontando molti dei suoi vantaggi. La teoria (pur fondata) secondo cui la debolezza dell’euro è destinata a proseguire va quindi rivista costantemente con occhio critico.
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