02.11.2023 - Bert Flossbach

Quando i Ministri delle finanze si innervosiscono...


Quando i Ministri delle finanze si innervosiscono...

I tassi d’interesse sui crediti sono notevolmente aumentati. A notarlo non sono solo i costruttori edili o gli imprenditori: anche l’impatto sulle finanze pubbliche è piuttosto pesante. 

Tecnicamente l’inflazione è una manna dal cielo per i bilanci statali e contribuisce a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. L’aumento dei prezzi e dei salari assicura un abbondante gettito fiscale, che a sua volta imprime un’ulteriore spinta (nominale) al prodotto interno lordo (PIL), che riduce il debito pubblico in rapporto alla performance economica.

È così che in passato i paesi fortemente indebitati sono spesso riusciti a riportare a livelli sostenibili rapporti di indebitamento preoccupanti. A tale scopo, però, i tassi d’interesse devono rimanere inferiori al tasso d’inflazione (tasso d’interesse reale negativo), per evitare che l’onere aggiuntivo degli interessi eroda i guadagni assicurati dall’inflazione.

Ne consegue quindi una sorta di “conflitto di interessi” fra la lotta all’inflazione e la stabilità dei mercati finanziari. Se da un lato un tasso d’interesse reale negativo è fondamentale per la solvibilità dei paesi fortemente indebitati, dall’altro lato le banche centrali devono alzare i tassi d’interesse al di sopra del tasso di inflazione per raffreddare l’economia.

Tassi d’interesse elevati? Non è una novità...

Se si confrontano i tassi d’interesse di oggi con quelli degli anni ‘70 e ‘80, la preoccupazione che il relativo incremento possa minacciare la solvibilità degli Stati, e quindi dell’intero sistema finanziario, sembra piuttosto infondata. All’epoca, il rendimento dei titoli del Tesoro decennali statunitensi era in media del 9%, con punte addirittura del 16%.

Oggi è appena del 5%. Lo stesso vale per i Bund tedeschi, che attualmente rendono circa il 3% rispetto all’8-10% registrato all’inizio degli anni ‘80 e ‘90. Tuttavia, i livelli di indebitamento sono oggi molto più elevati. Ad esempio, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo (PIL) negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘80 era di appena il 31% del PIL contro il 122% di oggi.

Ogni punto percentuale di interessi grava quindi sul bilancio pubblico quattro volte in più rispetto ad allora. Nella zona euro, il rapporto debito pubblico/PIL è inferiore a quello degli Stati Uniti, con una media del 92%, ma i singoli paesi presentano profonde differenze, che si sono notevolmente ampliate dopo la crisi dell’euro. Infatti, mentre in Italia il debito è alle stelle già da parecchio tempo, in Francia e in Spagna è lievitato dopo la crisi finanziaria, passando rispettivamente dall’85% al 112% del PIL e dal 61% al 113% (si veda il Grafico).

 

La crescente divergenza pone la BCE di fronte a un’enorme sfida, resa ancora più ardua dall’elevato livello di indebitamento dell’Italia. Tuttavia, ci vuole del tempo prima che l’aumento dei tassi d’interesse si manifesti appieno sull’onere degli interessi dei singoli Stati. Molte obbligazioni con cedole basse emesse durante la fase di tassi d’interesse minimi sono ancora in circolazione. Solo quando scadranno e verranno sostituite da titoli a più alto rendimento, l’onere degli interessi salirà drasticamente.

La durata media residua dei titoli di Stato italiani è di circa sette anni, a fronte di un rendimento medio che attualmente si aggira intorno al 3% – un valore ancora gestibile. Ad oggi l’Italia deve pagare sui titoli di Stato di nuova emissione un interesse che oscilla fra poco meno del 4% e poco più del 5%, a seconda della durata.

I costi dei crediti aumentano

Se i tassi d’interesse rimarranno invariati, tra circa cinque anni il rendimento medio sui titoli in circolazione sarà approssimativamente del 4%. A parità di rapporto debito pubblico/PIL, ciò porterebbe la spesa per interessi al 5,8% del PIL o a poco meno del 20% delle entrate dello Stato, il che rappresenterebbe un onere enorme per il bilancio del Bel Paese. La BCE deve quindi considerare anche i rischi associati alla sua politica anti-inflazionistica per la solvibilità delle nazioni altamente indebitate.

Ecco perché terrà sicuramente d’occhio il livello dei rendimenti in Italia e il premio al rischio rispetto ai Bund tedeschi, che attualmente si aggira intorno ai due punti percentuali per i titoli decennali. Un ampliamento significativo del differenziale di rendimento sarebbe un primo segnale di allarme.

Rischi ed effetti collaterali

Le cose si farebbero serie se i rendimenti dei titoli di Stato italiani aumentassero in modo significativo, mentre quelli dei Bund diminuissero. Una tale dinamica indicherebbe infatti una fuga verso il (presunto) porto sicuro dei titoli di Stato tedeschi. Per evitare una nuova crisi dell’euro e delle banche, la BCE dovrebbe intervenire acquistando le obbligazioni italiane. Così facendo, però, sacrificherebbe la priorità della lotta all’inflazione a favore della stabilità dei mercati finanziari.

Il percorso di ritorno al target d’inflazione del 2% si prospetta quindi lungo e accidentato, soprattutto nell’Eurozona. Perciò sarà molto difficile assistere a un taglio dei tassi o a un calo significativo dei rendimenti obbligazionari nel breve termine.

Invece di un picco dei tassi d’interesse, ci troviamo piuttosto all’inizio di un “plateau”. La sua durata non dipende solo dal persistere dell’inflazione, ma anche dalla resilienza del sistema finanziario a tassi d’interesse ancora elevati o in aumento.

 

 

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