14.09.2022 - Julian Marx

Meno è di più


Meno è di più

Inflazione al 9,1% nella zona euro: il dato di agosto ha segnato l’undicesimo record degli ultimi undici mesi. La banca centrale deve reagire, ma quanto? 

Per i più giovani fra noi, i tassi d’inflazione registrati di recente sono una novità. Per trovare un andamento altrettanto drammatico, bisogna andare molto indietro nella storia. Nel 1982, quando l’allora presidente della Federal Reserve Bank di Kansas City, Roger Guffey, convocò per la prima volta il simposio di politica monetaria a Jackson Hole, l’inflazione galoppante rischiava di sfuggire di mano. Nella primavera del 1980, i prezzi al consumo negli Stati Uniti erano aumentati addirittura del 14,6% rispetto all’anno precedente. Solo l’intervento risoluto dell’allora capo della Federal Reserve Paul Volcker, che alzò temporaneamente i tassi d’interesse di riferimento al 20%, riuscì a fermare questo sviluppo e a riportare l’inflazione a un livello di circa il 3% nel 1983. 

A distanza di quasi quattro decenni, in molti paesi ci stiamo nuovamente avvicinando a tassi d’inflazione a due cifre (o addirittura superiori in alcuni Stati della zona euro). Non a caso quindi il vertice sulla politica monetaria di quest’anno, tenutosi a Jackson Hole alla fine di agosto, ha riscosso particolare attenzione. Il messaggio degli esponenti di spicco della politica monetaria, come Isabel Schnabel, membro del Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea (BCE), è stato inequivocabile: “Le banche centrali devono intervenire con decisione nel contesto attuale e fugare ogni dubbio riguardo alla stabilità a lungo termine delle nostre monete legali”. La corsa delle banche centrali contro l’inflazione è quindi in pieno svolgimento. 

La corsa contro l’inflazione 

Dopo anni di politica monetaria non convenzionale, le banche centrali possono ora tornare a imbracciare la loro principale arma per la lotta all’inflazione: i tassi di riferimento. In un contesto in cui la politica monetaria deve bloccare i tassi d’inflazione e quindi abbassare la domanda economica, si persegue ora ciò che in passato andava evitato, ossia il peggioramento delle condizioni di rifinanziamento per le famiglie, le imprese e gli Stati. Solo così infatti la politica monetaria può contribuire a riequilibrare domanda e offerta ed evitare che tassi d’inflazione elevati si radichino nelle aspettative inflazionistiche.  

Nel frattempo, anche la titubante BCE ha accettato questo dato di fatto e ha deciso di intervenire a settembre con un secondo aumento dei tassi di riferimento di 0,75 punti percentuali. Altre banche centrali sono già più avanti sulla tabella di marcia. La Federal Reserve statunitense annuncerà a settembre il suo quinto rialzo per quest’anno, che porterà presumibilmente il tasso sui fondi federali a circa il 3%. Un livello che, dal canto suo, la Bank of Canada ha già superato (si veda il Grafico 1). E non è detto che sia finita qui. Dopotutto, l’inflazione core degli Stati Uniti è salita sensibilmente dello 0,6% ad agosto rispetto al mese precedente.   

È difficile prevedere quando finirà questa dinamica di rialzo dell’inflazione. Evidente dal punto vista dei banchieri centrali, però, è il fatto che negli ultimi decenni il raggio d’azione della politica monetaria ha continuato ad ampliarsi. Questo perché il debito è vicino a nuovi massimi storici. Negli Stati Uniti, ad esempio, alla fine del 2021 l’indebitamento complessivo (cioè la somma dei debiti di famiglie, imprese e governo) si aggirava attorno al 290% del prodotto interno lordo (PIL) – circa 100 punti percentuali in più rispetto al 2000. Un quadro simile si osserva anche nella zona euro. Qui il debito totale è passato dal 195% del PIL alla fine del 2000 a quasi il 270% alla fine dello scorso anno.  

Più alto è l’indebitamento complessivo di un’economia, più forte è l’impulso in termini di politica monetaria derivante dall’aumento dei tassi d’interesse. L’equazione è semplice: essendoci un maggior numero di (nuovi) debiti influenzati dall’incremento dei tassi d’interesse, il raggio d’azione della politica monetaria risulta automaticamente più ampio. Di conseguenza, nell’attuale contesto inflazionistico potrebbero servire meno rialzi dei tassi rispetto al passato per riportare l’inflazione verso il target del 2%. In questo caso, meno (interventi sui tassi d’interesse) significa di più (influsso della politica monetaria). 

Prospettive fosche per i risparmiatori 

Per i risparmiatori tedeschi questa combinazione non promette nulla di buono. I banchieri centrali europei non hanno bisogno (né devono) eccedere nell'innalzare i tassi d'interesse. Da un lato, perché gli aumenti dei tassi hanno ripercussioni relativamente pesanti a causa dell’elevato livello di indebitamento. Dall’altro lato, perché non si possono ignorare i rischi per la stabilità finanziaria dettati dall’incremento dell’onere debitorio. Pertanto, sarà alquanto improbabile osservare tassi d’interesse reali positivi nella zona euro nel prossimo futuro. Per i risparmiatori quindi il periodo di magra degli ultimi anni sembra destinato a continuare (si veda Grafico 2) – anche se gli interessi sui conti di risparmio dovessero tornare nell’ordine del 2-3%. Infatti, se le previsioni della BCE su un’inflazione del 5,5% per il prossimo anno dovessero rivelarsi veritiere, si verificherebbe comunque una notevole perdita di potere d’acquisto. 

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