02.02.2021 -
Le obbligazioni sono entità complesse. Se valga la pena o no investirvi dipende da molte fonti di reddito. In tal senso, gli indicatori possono aiutare a soppesare rischi e opportunità. In questa serie composta da tre parti ne vogliamo mettere in luce i pregi e difetti.
Quest’inverno, anche al sud si è scesi sotto lo zero – per lo meno nei rendimenti delle obbligazioni governative. Oltre a quelli francesi infatti, anche i titoli di Stato decennali di Spagna e Portogallo hanno talvolta prodotto rendimenti negativi. Nonostante la pandemia ed una crisi economica di portata storica, i debiti pubblici sono esplosi con la complicità della politica monetaria e dei programmi di acquisto di obbligazioni della Banca Centrale Europea. È pur vero che questo andamento non dovrebbe aver colto di sorpresa quelli che seguono più o meno regolarmente le nostre analisi interne.
In un periodo senza tassi d’interesse, il cosiddetto “rendimento p.a.” (per annum o annuo) – un tempo importante indicatore per le obbligazioni – ha perso la sua eloquenza. Ormai la strategia “buy and hold”, cioè di acquistare un’obbligazione e detenerla fino alla scadenza, non offre più rendimenti apprezzabili. Il mercato obbligazionario richiede ora flessibilità e capacità di gestione attiva: due aspetti che proprio per la loro rilevanza, sono diventati per noi quasi un mantra.
Nel nostro lavoro riceviamo quasi ogni giorno richieste di indicatori e di statistiche sui nostri fondi. Con questa serie composta da tre articoli, proporremo un’analisi approfondita di quelli più importanti e della loro effettiva validità. Spiegheremo poi perché prese singolarmente sono spesso poco rilevanti e potrebbero addirittura trarre in inganno, nel (presunto) nuovo mondo obbligazionario di oggi.
Iniziamo subito con il nostro indicatore preferito ovvero il rendimento annuo di un portafoglio di fondi ampiamente diversificato. Per molti investitori il rendimento annuo dovrebbe riflettere il potenziale guadagno di un fondo. Ma è davvero così, se nella pratica il gestore non mantiene quasi mai un’obbligazione fino a scadenza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo addentrarci un po’ di più nel mondo delle obbligazioni.
Il rendimento di un’obbligazione detenuta fino alla scadenza è composto dalla cedola annuale più l’eventuale utile (o perdita) derivata dal cambio. Alla scadenza, l’obbligazione deve avere sempre un prezzo di 100, fermo restando che l’emittente non fallisca. Le variazioni dei corsi in aggiunta ai pagamenti cedolari ricevuti, vengono rapportati al prezzo corrente dell’obbligazione, e quindi annualizzati per determinarne il rendimento annuo. Se dunque un investitore acquista un’obbligazione al di sopra del valore nominale, cioè ad un prezzo superiore a 100, subirà una minusvalenza fino al rimborso. Tale minusvalenza andrà poi naturalmente compensata con i pagamenti di cedole ricevuti fino a quel momento.
Questo meccanismo finanziario riduce di conseguenza l’effettiva capacità di un’obbligazione di corrispondere un interesse, dando vita agli ormai numerosi titoli a rendimento negativo presenti sul mercato. È quindi evidente come, per queste obbligazioni, la strategia “buy and hold” non abbia alcun senso. In altre parole un titolo che già rende poco o nulla, può addirittura scivolare ancora più in basso. Questo scenario risulta particolarmente vantaggioso per un investitore attivo, perché in tal caso il valore dell’obbligazione aumenta, almeno provvisoriamente.
Non è tutto: il rendimento annuo è solo una delle tante fonti di reddito disponibili per un investitore obbligazionario attivo. Il potenziale di rendimento complessivo delle obbligazioni può essere paragonato ad un muro appena eretto, formato da tanti singoli mattoni che però svolgono la loro funzione solo se messi insieme.
Nel caso delle obbligazioni, il “muro dei rendimenti” è composto da mattoni quali l’inflazione o la rivalutazione monetaria, il premio al rischio, la duration , l’influsso monetario, l’andamento della curva dei tassi, gli effetti di roll-down, il “carry” di una posizione, gli effetti di base, la liquidità e la volatilità (i prossimi articoli spiegheranno nel dettaglio la funzione di questi “mattoni del rendimento”).
Questi elementi strutturali cambiano costantemente nel tempo, prestandosi così ad essere sfruttati al meglio a seconda del contesto di mercato, a patto che non si perda mai di vista la conformazione generale di un muro portante. Perché una parete regga infatti, non devono mancare troppi mattoni e quelli posati devono rimanere saldamente uniti fra loro.
Come accennato all’inizio di questo articolo, il rendimento annuo è determinato dal rapporto tra il prezzo e il tasso d’interesse delle obbligazioni. Ma visto che il tasso d’interesse è fisso, il rendimento può cambiare solo in forza di un aumento o di una riduzione del prezzo. Queste stesse variazioni di prezzo però, si basano a loro volta sulle aspettative di remunerazione dinamiche degli investitori, che risultano dalla somma delle numerose componenti di profitto sopra menzionate. In altre parole: più i mattoni vacillano, più l’investitore vuol essere pagato per il rischio.
Sembra complicato? Effettivamente lo è, ma con la giusta esperienza, conoscenza ed un buon connubio di flessibilità e capacità d’azione, le opportunità non mancano. Tutto questo si può pertanto tradurre in una strategia d’investimento efficace, anche in un contesto di tassi zero e negativi. E alla sola condizione che venga rigorosamente rispettato un approccio equilibrato di rischio/rendimento.
Chi desidera continuare a detenere in portafoglio titoli obbligazionari quale fonte basilare di ripartizione del rischio ( diversificazione ), dovrebbe ricorrere ad una strategia d’investimento attiva e flessibile. E a tal fine, il rendimento annuo come presunto indicatore del potenziale di guadagno – quanto meno se considerato da solo – è del tutto irrilevante o nel peggiore dei casi, addirittura fuorviante.
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