17.02.2021 - Sven Langenhan

L’UTILITÀ DEGLI INDICATORI – I numeri non mentono, o sì?


L’UTILITÀ DEGLI INDICATORI – I numeri non mentono, o sì?
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Le obbligazioni sono entità complesse. Se valga la pena o no investirvi dipende da molte fonti di reddito. In tal senso, gli indicatori possono aiutare a soppesare rischi e opportunità. In questo terzo articolo, ne illustriamo le dinamiche.

Dopo esserci occupati nei primi due articoli delle basi accademiche degli indicatori “rendimento annuo” e “duration”, concludiamo con un tono un po’ più aneddotico. In sostanza, ci interessa capire la valenza effettiva delle statistiche sulle partecipazioni obbligazionarie presenti in un portafoglio . Ad esempio, a quanto dovrebbe ammontare la quota di segmenti obbligazionari come i titoli di Stato o i titoli di determinate regioni. Approfondiremo inoltre i vari elementi strutturali che consentono di ottenere performance interessanti anche in periodi senza interessi.

Senso e nonsenso degli indicatori 

Molte delle richieste che riceviamo quotidianamente ruotano attorno a valori statistici, come la ripartizione di un portafoglio in base ai diversi segmenti del mercato obbligazionario. Qui la tipica domanda riguarda la quota da destinare ai titoli di Stato. Spesso ci chiedono anche consigli riguardo alla distribuzione geografica di un portafoglio obbligazionario, ad esempio la percentuale da allocare agli emittenti dei mercati emergenti. Chi ha seguito le prime due parti della serie, avrà ormai capito che anche dietro questi indicatori si nascondono delle insidie. Perché se è vero che i numeri ed i fatti non mentono, è altrettanto vero che non sempre riflettono l’effettiva realtà. Spesso non soddisfano nemmeno le aspettative che gli operatori vi ripongono e causano interpretazioni errate. 

Iniziamo dalla quota dedicata ai titoli di Stato. In passato, le obbligazioni governative rappresentavano la componente del portafoglio ritenuta sicura e quindi in gran parte priva di rischio, cosa che per altro molti investitori continuano a credere. Il problema è che non tutti i titoli di Stato sono uguali. I tempi in cui si supponeva che tutte le obbligazioni sovrane del mondo industrializzato fossero prive di rischio sono finiti, al più tardi con l’ultima crisi finanziaria. O vi sentireste sicuri a possedere una quota elevata di titoli di Stato costituita esclusivamente da obbligazioni governative dell’Europa meridionale? E sarebbe diverso se si trattasse di Bund tedeschi a lungo termine che se detenuti fino a scadenza, comportano solo rischi senza alcun rendimento a causa dei tassi d’interesse negativi? 

Con questo confronto non intendiamo affatto puntare il dito contro i vicini europei più indebitati, ma piuttosto dare agli investitori un’idea dei rischi che effettivamente esistono e metterli in guardia dai giudizi affrettati. Anche i titoli di Stato, infatti, possono essere rischiosi. In un portafoglio non contano solo il tipo di obbligazioni e la solvibilità degli emittenti, ma anche, ad esempio, la durata dei titoli. Soprattutto in un periodo di tassi d’interesse nulli e negativi e di forte ingerenza delle banche centrali, i vecchi modi di pensare risultano spesso poco sensati.

Le conoscenze geografiche di base non bastano

Lo stesso vale per la provenienza geografica delle obbligazioni. Per molti investitori, la percentuale di titoli dei mercati emergenti rappresenta un’importante misura del rischio. Eppure, già la definizione di per sé è complicata. Prendiamo ad esempio la Cina: ufficialmente appartiene ancora ai paesi in via di sviluppo, ma questa classificazione è alquanto discutibile dal punto di vista economico. Dunque, come giudicare concretamente le singole obbligazioni? Supponiamo che da un giorno all’altro Amazon trasferisca il suo quartier generale in Cina. La percezione dell’azienda cambierebbe radicalmente e gli investitori le attribuirebbero i tipici aggettivi che riservano a un “investimento nei mercati emergenti”? 

E che dire di un’azienda come Alibaba, che in termini di dimensioni, penetrazione del mercato e potenziale supera addirittura Amazon, ma ha sede in Cina? Lo stesso vale per realtà simili a livello mondiale, come Facebook, Tencent e molte altre. Anche in questo caso, più che una classificazione superficiale, a contare sono i fatti concreti relativi alle singole aziende.

Il che ci porta alla posizione geografica generale di un investimento: un terreno che, per le obbligazioni, si fa piuttosto “scivoloso”. Da un lato, la classificazione geografica dipende dalla sede centrale di un’azienda. A scanso di equivoci, il paese in cui ha sede l’azienda è certamente rilevante, ad esempio per i rischi legali e politici. Lo dimostrano molto chiaramente i precedenti esempi di aziende cinesi, che potrebbero riscontrare non poche difficoltà a causa di un “intervento politico” – un’eventualità che d’altro canto potrebbe verificarsi (seppur ovviamente in forma leggermente diversa) anche in altre regioni, come gli Stati Uniti. Anche lì possono talvolta manifestarsi impatti non calcolabili dovuti a un cambiamento nelle normative. Dall’altro lato però, è proprio per questo motivo che il solo paese d’origine non è affatto sufficiente per misurare i rischi effettivi di un investimento.

Un esempio su tutti è Nestlé. La società ha sede in Svizzera e dal punto di vista geografico apparterrebbe quindi al paese alpino, che tuttavia se confrontato con il successo globale di tale azienda, ha un’importanza economica pressoché irrilevante. Le decisioni di acquisto dei clienti nel paese d’origine dell’azienda – la Svizzera per l’appunto – incidono molto meno sul suo successo, rispetto alla domanda proveniente da svariati mercati emergenti. E ciò avverrà’ ancora di più in futuro.

Ma non è tutto: la “questione paese” in generale è ancor più complessa. La classificazione delle obbligazioni infatti, avviene in base al paese in cui vengono emesse. Occorre quindi distinguere il paese d’origine dalla giurisdizione di emissione. Questo punto che molti investitori trascurano, può però risultare alquanto rilevante in caso di “controversia”. Ecco spiegato perché molti emittenti ricorrono per i più svariati motivi, a filiali di finanziamento dedicate, che ha loro volta hanno sede in paesi completamente diversi. Particolarmente conosciuti in tal senso sono alcune isole dell’America Latina, ma anche i Paesi Bassi. 

E così si scopre che le obbligazioni della società cinese Tencent sono in realtà classificate sotto le Isole Cayman. Oppure che la catena globale di birrerie Anheuser Busch InBev ha per lo stesso identico “garante” (come viene ufficialmente chiamato il debitore finale), assegnazioni geografiche sia in Nord America che Europa, a seconda dell’obbligazione stessa. Tutto questo non solo suona paradossale, ma ci ricorda ancora una volta come alcuni dettagli possano fare una grande differenza. Ecco perché è fondamentale conoscere l’esatta differenza tra indicatori e dati reali: un presupposto fondamentale per evitare possibili gravi fraintendimenti. 

Per questo motivo, noi di Flossbach von Storch AG cerchiamo nel limite del possibile, di non indicare nei documenti dei fondi la sola attribuzione geografica. Siamo anche piuttosto cauti anche nel proporre valutazioni puramente statistiche, come ad esempio le suddivisioni storiche dei segmenti. Prioritaria per noi è la trasparenza, ragion per cui sottolineiamo e contestualizziamo sempre i fattori a nostro avviso più importanti per il successo degli investimenti a lungo termine. 

Diversificazione globale degli investimenti

Per i fondi obbligazionari, questi fattori di successo sono i singoli mattoni del famoso “muro dei rendimenti” (si veda il primo articolo della serie), come ad esempio la forma della curva, che mostra i rendimenti a intervalli di scadenza diversi. La curva, però, non è una sola. A seconda del tasso d’interesse e dell’area valutaria, ce ne sono diverse, con altrettante differenze e potenziale di guadagno. 

Al momento per esempio, la curva dei rendimenti australiana è completamente diversa da quella di molte delle sue controparti globali. È relativamente ripida e prossima al livello massimo raggiunto nel 2015. Ciò significa che gli interessi per le obbligazioni con scadenza a dieci anni sono notevolmente più elevati rispetto a quelli delle obbligazioni a cinque anni. Per altro, i tassi d’interesse sono in territorio positivo per tutte le durate. Almeno in Australia, stiamo dunque assistendo a un fenomeno tuttora descritto nei testi specialistici come la “tipica” curva dei rendimenti. 

In molte regioni esiste però una curva dei rendimenti invertita, dove gli interessi sulle obbligazioni a breve termine sono maggiori rispetto a quelli delle controparti a più lunga scadenza. Sebbene questo andamento si osservi ormai da tempo, gli accademici lo definiscono ancora “atipico”. Siamo proprio curiosi di vedere come si evolverà la dottrina classica e se alla fine si adatterà alla “nuova” realtà. 

Tornando però alla curva dei rendimenti australiana, dal connubio di tassi d’interesse positivi – che per gli investitori europei determina un rendimento positivo anche al netto della copertura valutaria (si veda il cosiddetto “carry” del muro dei rendimenti nella prima parte della serie) – ed effetto roll-down generato da una curva ripida può nascere un profilo di rischio/rendimento interessante persino per un titolo di Stato ritenuto “noioso”. 

Per effetto di roll-down si intende la ricompensa per il possesso (temporaneo!) di un’obbligazione. Se infatti sul mercato non succede nulla, cioè i tassi d’interesse rimangono invariati, con il tempo l’investitore “paziente” scende gradualmente lungo la curva verso livelli di rendimento più bassi. Ricordate la prima parte della serie? Ferma restando una determinata cedola, il rendimento diminuisce con l’aumentare del prezzo del titolo. E così l’investitore potrà contare su un “ammortizzatore” nel caso in cui gli interessi non rimangano stabili, ma salgano leggermente, oppure godrà di un ulteriore potenziale di guadagno, se i tassi dovessero ad un certo punto calare. 

Chiunque diversifichi in modo sensato un portafoglio obbligazionario a livello globale non può sottrarsi alla questione valute. Da un lato, perché senza una copertura valutaria contro le fluttuazioni del mercato dei cambi si corrono rischi aggiuntivi, che pochi investitori sono disposti a sobbarcarsi. Dall’altro lato, perché la copertura di tali rischi ha (generalmente) un prezzo. Quando si prende una decisione d’investimento è quindi essenziale stabilire se tale allocazione offrirà del potenziale anche al netto della copertura valutaria e soppesarne il valore in termini di rischio/rendimento per il portafoglio complessivo alla luce di un’eventuale posizione valutaria aperta. Effettivamente è più facile a dirsi che a farsi, ma con una certa competenza ed esperienza e, soprattutto, un meticoloso lavoro analitico, nulla è impossibile.

E quando si tratta di valute, è esattamente questa analisi che può fare una grande differenza in termini di guadagno. Molti emittenti offrono obbligazioni pressoché identiche per parametri come scadenza e garante effettivo, che si differenziano solo per la valuta di denominazione – considerazione fondamentale ai fini della comparabilità. Nei mercati teoricamente privi di arbitraggio, tali obbligazioni dovrebbero avere lo stesso rendimento al netto della copertura valutaria. In pratica, però, non è così, e le differenze in termini di rendimento ottenuto a fronte dello stesso profilo d’investimento sono talvolta enormi. Esistono numerosi titoli obbligazionari denominati direttamente in euro che, al netto della copertura valutaria, hanno un rendimento notevolmente superiore rispetto alle loro controparti in dollari USA. E vale anche il contrario, ovvero un’obbligazione in dollari USA con copertura in euro può rendere molto di più di un titolo analogo dello stesso emittente, lanciato sul mercato direttamente in euro. 

Una spiegazione di queste differenze si può spesso ritrovare nel cosiddetto “home bias”, cioè la tendenza di molti investitori a privilegiare le obbligazioni della loro zona geografica, dando vita a diverse dinamiche di domanda e offerta nei vari mercati. Chi presta particolare attenzione a questi elementi, ritenuti talvolta secondari, può ottenere interessanti rendimenti aggiuntivi.

L’”Active Income” come risposta a un mondo di tassi zero e negativi 

Il segreto per sfruttare al meglio l’attuale contesto dei tassi d’interesse è proprio utilizzare i molteplici mattoncini che formano il muro dei rendimenti. È probabile che i rendimenti rimarranno nulli o negativi più a lungo di quanto non credano al momento molti investitori. Pertanto, solo l’“Active Income”, ovvero una strategia d’investimento flessibile integrata da un’analisi certosina, permette di assemblare le altrettanto numerose e dinamiche componenti di reddito e creare fondamenta solide per il muro dei rendimenti. 

È così che si raggiungono risultati soddisfacenti anche in campo obbligazionario e si mantiene il valore reale di un portafoglio. A tal fine, è importante dire addio a vecchi schemi di pensiero, forse anche a quelli più cari, e sostituirli con un approccio imprenditoriale che valuti attentamente i rischi effettivi rispetto alle relative opportunità. Per farlo è importante non solo avere a portata di mano tutti gli indicatori rilevanti, ma anche conoscerne nel dettaglio il funzionamento.

 

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