16.11.2021 - Bert Flossbach

Le banche centrali sul filo del rasoio


Le banche centrali sul filo del rasoio

I prezzi continuano a salire - un bel problema per le banche centrali, il cui compito è quello di mantenere stabile il valore del denaro. Le loro possibilità sono però limitate.

L’inflazione è tornata. A settembre i prezzi al consumo in Germania hanno registrato l’incremento più significativo in 29 anni. Ad agosto i prezzi alla produzione sono aumentati addirittura del 12% rispetto allo scorso anno – un record dal dicembre 1974. Con riferimento all’Eurozona, dove l’“effetto IVA” tedesco non ha ripercussioni significative, il tasso d’inflazione è stato leggermente inferiore (3,4%), ma ha comunque segnato il livello più alto dal settembre 2008. Negli Stati Uniti, per quattro mesi consecutivi i prezzi al consumo hanno superato di almeno il 5% il dato dell’anno precedente. Anche l’inflazione core, cioè senza energia e generi alimentari, si è attestata al 4% – un tasso raggiunto l’ultima volta nel 1991.

Questa impennata è ascrivibile a una combinazione di domanda elevata e offerta carente di molti beni, dovuta alla pandemia, nonché ad un notevole rincaro di energia ed elettricità. Soprattutto negli Stati Uniti, i generosi aiuti governativi hanno riversato parecchio denaro nelle tasche dei cittadini, o meglio sui conti dei consumatori. Questa spinta impressa dal coronavirus si riflette anche nella forte espansione della massa monetaria. Da febbraio 2020 a fine settembre 2021, la massa monetaria M2 (contanti + depositi di soggetti non bancari presso istituti di credito + fondi del mercato monetario di investitori privati) è aumentata del 34%, equivalente a un tasso di crescita annuo del 22%.

Se prima le persone risparmiavano per precauzione, ora spendono sempre di più (auto, dispositivi elettronici, abbigliamento, viaggi, ecc.). L’inflazione chiama ovviamente all’azione le banche centrali, il cui compito consiste nell’assicurare la stabilità monetaria. Per molto tempo il tasso è rimasto inferiore al loro target, motivo per cui hanno fatto il possibile per raggiungere finalmente il tanto agognato 2%.

L’inflazione e le banche centrali

Ora il genio è uscito dalla lampada e intrappolarlo di nuovo è tutt’altro che semplice. Nelle circostanze attuali, aumentare i tassi d’interesse – classico espediente delle precedenti fasi inflazionistiche – è un’impresa rischiosa. Visto l’elevato indebitamento pubblico e una ripresa post-pandemica ancora fragile, soprattutto nell’Eurozona, si potrebbe semmai optare nel prossimo futuro per un incremento molto graduale.

È proprio per questo che le banche centrali, prima fra tutte la Banca Centrale Europea (BCE), stanno placando gli animi con la storia di un’impennata dell’inflazione solo temporanea, che finirà il prossimo anno quando si risolverà il problema delle strozzature alle forniture. Ma se l’inflazione dovesse rivelarsi duratura, questa teoria perderà di credibilità.

Nel frattempo, il Presidente della Federal Reserve (Fed) statunitense Jerome Powell ha lasciato intendere che la situazione attuale potrebbe protrarsi più a lungo di quanto inizialmente previsto, ma si può contare su un certo allentamento una volta superati i colli di bottiglia nella produzione e nella logistica. A suo avviso quindi non bisogna temere che l’attuale incremento dell’inflazione sia presagio di un cambio di regime, ma è pur vero che la Fed sarebbe chiamata a intervenire se le aspettative inflazionistiche dovessero aumentare in maniera significativa.

Tuttavia, basta un confronto tra le previsioni elaborate a inizio anno per il 2021 e le aspettative corrette a settembre per rendersi conto di quanto imprecise siano state le stime d’inflazione delle banche centrali negli ultimi tempi (si veda grafico sopra). Ovviamente, nel bel mezzo di una pandemia, è piuttosto difficile prevedere l’andamento futuro dei prezzi. Questo però non scoraggia la BCE dal pubblicare aspettative inflazionistiche precise per i prossimi anni: +1,7% di incremento generale dei prezzi per il 2022 e +1,5% per il 2023. Un breve sguardo alla storia dimostra le poche probabilità di successo di queste previsioni (si veda grafico sotto).

Il compito delle previsioni è soprattutto guidare le aspettative d’inflazione della gente nella direzione desiderata o – per usare il gergo delle banche centrali – ancorarle. Non si pecca di cinismo nel definire questi dati “illusori”. Aspettative inflazionistiche elevate costringerebbero le banche centrali a intervenire e potrebbero causare anche un’impennata dei rendimenti obbligazionari: un bel problema soprattutto per la zona euro, in un contesto di ripresa fragile e forte indebitamento di alcuni dei suoi paesi.

Ecco spiegato perché le banche centrali vogliono attenersi il più a lungo possibile a una politica di bassi tassi d’interesse, giustificandola con stime inflazionistiche morigerate per i prossimi anni. Un po' come il motto: “non importa se oggi piove, domani tornerà a splendere il sole”.

È quasi paradossale che la banca centrale continui a perseguire un incremento dell’inflazione al target del 2%, quando in realtà l’inflazione l’ha già ampiamente superato. Teoricamente la BCE potrebbe continuare questo gioco all’infinito ed emettere ogni anno nuove “previsioni di sole” per gli anni successivi. In pratica, però, questa strategia mostrerà i suoi limiti quando la gente non si fiderà più e adeguerà le proprie aspettative inflazionistiche e i propri comportamenti alla realtà dei fatti.

Cosa significa tutto questo per la nostra strategia di investimento?

L’inflazione è ritornata e ci sono segnali che indicano che è qui per rimanere. Le azioni e l’oro sono le uniche classi di attività liquide che, a nostro avviso, consentiranno ancora una protezione contro l’inflazione e la crescita del valore reale nel futuro. D’altra parte, le classiche obbligazioni governative e societarie stanno offrendo agli investitori rendimenti nettamente al di sotto del tasso di inflazione , già da qualche tempo. Non offrono nemmeno più un effetto di diversificazione , quando le cose diventano un po’ più complicate sui mercati azionari. Ciò è stato dimostrato, in maniera esemplare, dal crollo dei prezzi delle obbligazioni societarie a marzo 2020, quando l'indice azionario globale MSCI World perse il 40% del valore. Perfino un' obbligazione a lunga scadenza di Microsoft, un'azienda che ha realmente elevate riserve di liquidità nel suo bilancio, subì un brusco calo temporaneo del prezzo in quel frangente. I titoli di stato decennali US hanno resistito un po' meglio, ma la correlazione negativa sperata con mercati azionari non si è materializzata nemmeno in questo caso.

Le azioni offrono invece una protezione molto più efficace contro l'inflazione. Tuttavia, questa caratteristica non si applica in modo generalizzato a tutte le azioni, in quanto presuppone la capacità dell'azienda di aumentare i prezzi e/o le quantità in modo tale che i profitti aumentino almeno quanto l'inflazione. Pertanto, l’azione con valutazione invariata aumenterebbe almeno quanto il tasso di inflazione e manterrebbe o aumenterebbe il suo valore reale. Dato che la strada verso un nuovo regime di inflazione è rocciosa, non tutte le aziende la supereranno. Noi ci focalizziamo su azioni di qualità societarie redditizie e che hanno prospettive di successo. Queste aziende dovrebbero superare tutte le stagioni grazie ai prodotti eccellenti, ad una forte posizione competitiva e ad un'alta redditività e sono in grado di affrontare meglio l’aumento dei costi rispetto alle aziende più fragili, con margini relativamente bassi e un alto indebitamento.

Ovviamente, i portafogli in gran parte azionari sono interessanti soprattutto per quegli investitori che rimangono investiti per un lungo periodo (almeno 5 anni), accettando le oscillazioni temporanee, che rappresentano parte integrante del mercato azionario. Mentre gli investitori con un orizzonte 

d'investimento inferiore, in grado di tollerare le minori oscillazioni possibili, continueranno probabilmente a preferire strategie d'investimento difensive (che, tuttavia, investono anche una parte del patrimonio in azioni).

L’oro, a nostro parere, appartiene altrettanto al portafoglio . A lungo termine, il "ritorno" del metallo prezioso senza interessi è quello di compensare almeno il deprezzamento del denaro annuale. Nulla di più, ma anche nulla di meno. Consideriamo infatti una quota del dieci per cento di oro nel portafoglio come una sorta di assicurazione, che possa attutire le perdite se, vista la fragilità del sistema finanziario, la fiducia nella moneta dovesse un giorno venir meno.

Solamente un aumento significativo dei tassi o una contrazione permanente dell’economia ridurrebbero l’attrattività delle azioni. Tuttavia, entrambe le opzioni ci sembrano alquanto improbabili. I mercati azionari considereranno probabilmente il rischio di un aumento dei tassi di interesse certe volte di più ed altre volte meno, anche se è sempre più evidente che le banche centrali abbiamo le mani legate. Ma finché l'inflazione rimarrà moderata nel nuovo regime, le conseguenze saranno gestibili. Solo quando le persone dubiteranno seriamente della stabilità monetaria, tutto questo potrà cambiare. Perché questo accada, tuttavia, l'inflazione dovrebbe raggiungere un livello permanente a due cifre, cosa che non ci aspettiamo.

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