03.12.2018 -
Mentre negli USA il mercato azionario ha segnato un andamento positivo, l’indice di riferimento tedesco DAX è finito sotto pressione. E chi pensa che tutte le azioni europee siano buoni affari dovrebbe conoscere meglio i fatti.
Molti osservatori di mercato credono ciecamente nel “potenziale di recupero” delle azioni europee. Una tesi che viene ripetuta come un mantra soprattutto in Germania, spesso adducendo come motivazione le valutazioni che - a uno sguardo superficiale - appaiono più convenienti. Solo di rado, invece, si legge che l’orientamento fortemente ciclico di quasi tutti gli indici azionari europei giustifica anche premi al rischio più elevati e di conseguenza valutazioni complessivamente inferiori rispetto al mercato USA, che è molto più equilibrato. Inoltre, negli Stati Uniti si riscontrano numerosi casi di crescita che a nostro avviso in Europa non sono così abbondanti.
Oltre alla composizione dell’indice e ai business model complessivamente più convincenti, vi è un altro argomento che giustifica una valutazione leggermente più elevata per le azioni americane: da anni le aziende d’oltreoceano registrano una crescita degli utili nettamente più elevata rispetto alle omologhe europee. Negli ultimi tre trimestri gli utili delle società quotate sull’indice statunitense S&P 500 sono aumentati di circa il 26% rispetto all’anno precedente. “Le imprese USA hanno raddoppiato gli utili dal 2007 nonostante il temporaneo crollo. In Europa, gli utili aziendali sono ancora oggi mediamente inferiori al livello del 2007.”
Se qualcuno sta pensando che il merito sia solo ed esclusivamente della riforma tributaria promossa dal Presidente Donald Trump si sbaglia di grosso, perché solo un terzo della crescita degli utili è ascrivibile alla minore pressione fiscale. Altri due punti percentuali si devono ai livelli record dei riacquisti di azioni proprie da parte delle imprese statunitensi, dato che gli utili aziendali si ripartiscono poi su un minor numero di azioni in circolazione. Un ulteriore contributo del due percento è giunto dal rincaro del petrolio, che ha continuato a salire fino alla fine del terzo trimestre facendo lievitare i profitti dei produttori.
Di fatto, oltre la metà della crescita degli utili nel corso di quest’anno è ascrivibile all’aumento di fatturati e margini. E anche su questo fronte le imprese statunitensi hanno sorpreso gli analisti, che a inizio anno - pur consapevoli della riforma fiscale già varata - prevedevano un modesto aumento degli utili pari al 12%. Nel Vecchio continente, invece, le imprese hanno continuato a navigare in acque difficili. Gli utili aziendali dell’Eurozona hanno segnato una crescita del 7% circa, che oltre a isultare ampiamente inferiore al dato americano, non ha nemmeno eguagliato le stime formulate dagli analisti nel corso del 2018.
Per quanto riguarda l’imminente fine anno, ecco ripetersi puntuale la stessa scena: le aziende statunitensi danno buoni risultati superando le aspettative, mentre quelle europee arrancano mandando in fumo le speranze degli investitori che puntavano su una contrazione della forbice. La maggiore affidabilità delle società americane è dunque un altro elemento che giustifica gli attuali livelli di valutazione più elevati.
Spesso si nota che gli investitori trascurano l’andamento degli utili aziendali, fingono di non vederlo o nemmeno lo conoscono con precisione. Ad esempio, se qualcuno un anno fa aveva letto di azioni europee convenienti vs. azioni USA costose in una delle tante rubriche di “prospettive annuali”, corre il rischio di interpretare erroneamente l’andamento delle quotazioni nell’anno in corso. Poiché le azioni statunitensi sono rimaste pressoché stazionarie nel corso dell’anno mentre quelle europee hanno subito ingenti perdite, se ci si limita a osservare l’indice si potrebbe concludere che il presunto potenziale di recupero dei titoli europei sia ulteriormente aumentato.
Ma non è affatto così: in realtà, anche le azioni USA sono diventate molto più convenienti negli scorsi mesi. Perché chi investe oggi in società comprese nell’indice S&P 500 acquista, a un “prezzo” di circa 2.700 punti indice, azioni di imprese che generano utili di gran lunga superiori rispetto all’inizio dell’anno (cfr. grafico 2). Come dimostra il cosiddetto rapporto prezzo/utili (P/E): gli utili in crescita, da un lato, e i corsi sostanzialmente stazionari dall’altro comportano appunto una valutazione complessivamente inferiore, come si comprende chiaramente osservando il grafico 3. Se nei prossimi 12 mesi gli utili dovessero rimanere al livello registrato nel 3° trimestre ormai concluso, il P/E dell’indice S&P 500 si attesterebbe intorno a quota 15,6. E questo senza ulteriori aumenti degli utili. Ebbene, il dato risulterebbe non solo ampiamente inferiore rispetto al livello di gennaio (18,5), ma anche in linea con la media degli ultimi 30 anni.
Poiché oggi il tasso d’interesse – che tiene ancorate le valutazioni di tutte le asset class – è molto più basso rispetto alla media degli ultimi 30, 40 o 50 anni, questi “P/E medi” non aiutano più a comprendere se le valutazioni siano o meno “eque”. Ma almeno evidenziano che il quadruplicarsi dell’S&P 500 negli scorsi anni è sostenuto sul piano dei fondamentali da una crescita degli utili quasi altrettanto vigorosa.
Aggiungiamo infine un paio di dati per chi voglia approfondire l’andamento degli utili. Nei mesi di luglio, agosto e settembre 2018, le società quotate nell'indice S&P 500 hanno generato utili trimestrali di poco superiori a 42,50 punti indice (moltiplicando questo valore per quattro si ottengono quei 170 punti di profitto che in relazione all'attuale livello dei corsi corrisponderebbero a un rapporto prezzo/utili di circa 15,6). Nei due anni precedenti alla crisi finanziaria, gli utili trimestrali si attestavano stabilmente poco oltre i 20 punti di profitto. Le imprese statunitensi hanno quindi raddoppiato gli utili dal 2007 nonostante il temporaneo crollo. In Europa, invece, gli utili aziendali sono ancora oggi mediamente inferiori al livello del 2007.
Thomas Lehr è Capital Market Strategist presso Flossbach von Storch da inizio del 2017. In precedenza, ha ricoperto diversi posizioni presso il gruppo di Credit Suisse, Berenberg Bank AG e Deka Investment.
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