20.11.2019 - Thomas Lehr

Il mito del boom auto-prodotto delle borse


Il mito del boom auto-prodotto delle borse

I mercati azionari negli Stati Uniti stanno crescendo da oltre dieci anni. Il che alimenta la diffidenza. Le società stanno forse aumentando artificialmente i prezzi tramite riacquisti azionari?

Che rally. Con più di 3.000 punti, l’indice azionario statunitense S&P 500 ha superato quest’anno il picco massimo del suo tracciato rialzista, che dura ormai da oltre dieci anni. Manca ancora poco più del dieci percento e l’indice si sarà praticamente quintuplicato dal minimo del marzo 2009. In confronto, il raddoppio dell’indice Euro Stoxx 50 rispetto allo stesso periodo sembra un nonnulla.

Perché una tale divergenza fra i mercati?

Deve pur esserci un motivo per cui due mercati funzionano in modo così diverso. È qui che si inserisce a pennello la discussione sui riacquisti di azioni proprie che, nella campagna elettorale statunitense, ha raggiunto anche una dimensione politica. Si parla di “ingegneria finanziaria”, di un boom borsistico costruito “a credito”, tutt’altro che sostenibile e che sembri gravare oltretutto sui dipendenti. Questa leggenda è stata diffusa dai politici democratici americani Chuck Schumer e Bernie Sanders. Ma anche dagli investitori che non sono riusciti a partecipare al boom negli Stati Uniti e che hanno optato per l’Europa. E così il mito persiste.

L’opinione degli scettici

Di primo acchito, la storia sembra plausibile. Volumi enormi avrebbero (artificialmente) incrementato la domanda e per forza dover aver influenzato i prezzi delle azioni. Inoltre, gli utili delle società si sarebbero distribuiti su un numero sempre minore di titoli, il che determina un incremento l’“utile per azione” - fattore molto apprezzato dagli investitori. In realtà, gli scettici sostengono che l’aumento degli utili aziendali sia di gran lunga inferiore. Inoltre, l’espansione del debito sembra dimostrare che i rialzi dei corsi siano stati finanziati esternamente con “denaro a buon mercato”. È evidente che alla lunga non potrà andar a finire bene. Ma procediamo con ordine.

Un’analisi approfondita

Solo l’anno scorso, le società statunitensi hanno riacquistato azioni proprie per oltre 800 miliardi di dollari. Un incremento significativo, che però è quasi totalmente attribuibile alla riforma fiscale nazionale. Fino alla fine del 2017, le società statunitensi erano solite lasciare all’estero la maggior parte degli utili generati dalle loro filiali per sottrarsi all’imposizione tributaria negli USA. Ora però, le interessanti aliquote fiscali dovrebbero motivare le aziende a riportare “a casa” le riserve di liquidità accumulate nel corso degli anni. In tal senso, Donald Trump prevedeva rimpatri per addirittura 4.000 miliardi di dollari. Sebbene le aspettative del Presidente fossero chiaramente esagerate, l’anno scorso sono comunque tornati negli Stati Uniti più di 500 miliardi di dollari.

Riacquisti azionari con distribuzione degli utili

Se le aziende non trovano modi più gratificanti per utilizzare le disponibilità liquide, finiscono per restituirle ai loro “legittimi proprietari”, cioè agli azionisti. In Europa, la distribuzione dei dividendi è l’opzione più comune. Anche perché i dividendi negli Stati Uniti sono tassati in misura notevolmente superiore alle plusvalenze e quindi le società statunitensi utilizzano la maggior parte degli utili generati per effettuare riacquisti azionari. In media, dall’inizio del millennio, le società incluse nello S&P 500 hanno investito ogni anno circa la metà dei loro utili netti nei cosiddetti “Share Buybacks”. Un ulteriore terzo è stato utilizzato per pagare i dividendi. In fin dei conti, quindi, le società non hanno restituito agli azionisti più di quanto abbiano guadagnato al netto, ovvero dedotti i costi di ricerca e sviluppo e l’ammortamento degli investimenti.

Sembra dunque priva di senso la teoria secondo cui i riacquisti di azioni proprie sarebbero finanziati in misura non trascurabile con l’assunzione di nuovi debiti.

Riacquisti azionari “a credito”?

I sostenitori di questa tesi, invece, sottolineano come, secondo le loro ricerche degli ultimi anni, l’aumento dell’indebitamento corrisponderebbe su per giù al volume dei riacquisti azionari effettuati dalle società statunitensi nel medesimo periodo. Anche questo potrebbe sembrare plausibile, ma solo all’inizio. Una tale circostanza, infatti, presupporrebbe che l’aumento del debito fosse attribuibile principalmente alle società che hanno riacquistato azioni. Ma osservando l’importo aggregato, anche questa affermazione risulta priva di fondamenti, motivo per cui è essenziale esaminare ogni singolo caso per esprimere un parere legittimo. Chi si prenderà la briga di farlo, troverà sì molti esempi di aziende con una gestione poco lungimirante. ma scoprirà anche che, in generale, i riacquisti di azioni proprie non sono affatto finanziati mediante l’assunzione di nuovi prestiti.

Thomas Lehr è Capital Market Strategist presso Flossbach von Storch da inizio del 2017. In precedenza, ha ricoperto diversi posizioni presso il gruppo di Credit Suisse, Berenberg Bank AG e Deka Investment.

 

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