21.02.2020 -
Gli investitori di tutto il mondo tremano di fronte all’epidemia che sta paralizzando la Cina. Hanno ragione? Un contributo estero di Frank Sieren, giornalista e autore che vive a Pechino dal 1994.
Ogni giorno più malati, ogni giorno più morti. Il virus di Wuhan continua a stabilire tristi record, nonostante le enormi misure di contenimento adottate dal governo cinese, che non trovano eguali nella storia. Dopo le discussioni con medici e manager, una cosa è ormai evidente: non ha senso elaborare grafici basati sulle cifre. Tutto si riduce sempre e solo a una percezione arbitraria della malattia vera e propria. Non si tratta tanto di maldestri tentativi di insabbiamento, quanto di nuove scoperte mediche da un lato e di metodi di misurazione estesi e volontà politica dall’altro.
Se, quando e dove le persone torneranno a lavorare, viaggiare e andare a scuola, cioè quando il virus verrà sconfitto - o magari anche no - è una decisione prevalentemente politica. Infatti, quali siano le effettive misure necessarie in Cina lo decide in ultima analisi il Comitato permanente del Politburo sotto la guida del capo dello Stato e del partito Xi Jinping. E se di recente Xi ha notato “cambiamenti positivi”, anche questa è stata una loro decisione.
In base alle ultime statistiche (al 14/02/2020), il coronavirus ha causato finora più di 60.000 contagi e oltre 1.300 morti, il 99% in Cina. Giusto per fare un confronto, secondo le stime dell’Istituto Robert Koch di Berlino, la sola ondata influenzale del 2017/2018 ha provocato in Germania circa 25.100 morti: il dato più elevato degli ultimi 30 anni. Il più basso era stato 800. Eppure, le misure adottate all’epoca hanno ben poco a che vedere con quelle attuate oggi in Cina.
E per la stagione invernale 2019/20, i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) stimano che i pazienti cinesi affetti da influenza saranno addirittura 15 milioni. 140.000 hanno già dovuto essere ricoverati e più di 8.000 sono deceduti. Ad ogni modo, in un confronto a lungo termine, non si tratta di cifre sorprendenti. E anche aggiungendo le 1.300 vittime del coronavirus, non si potrebbe comunque parlare di un picco estremo. Vero è che la stagione influenzale non è ancora finita.
Secondo i dati ufficiali dell’OMS, il virus H1N1, scoppiato negli Stati Uniti nell’aprile 2009, ha causato allora più di 1,6 milioni di contagi e 18.449 morti in 214 paesi. I CDC parlano addirittura di 284.000 decessi. Ma per il governo statunitense dell’epoca non c’era motivo di adottare misure anche solo lontanamente simili a quelle attualmente implementate dal governo cinese. A quel tempo quasi nessuno se ne preoccupava né erano stati emessi divieti di viaggiare negli USA. Mentre allora l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) parlava di una “pandemia”, per il coronavirus non si è ancora espressa in termini simili. Entrambe le reazioni andrebbero considerate “estreme”: gli americani “estremamente tranquilli”, i cinesi “estremamente preoccupati”.
Secondo quanto riferito dal direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, Pechino avrebbe “fissato nuovi standard per le future epidemie”. Ad ogni modo, nel tentativo di proteggere altri paesi che potrebbero non rispondere altrettanto bene alla diffusione di un virus come la Cina, l’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza internazionale, pur senza diramare avvisi sull’inopportunità di recarsi in Cina né imporre restrizioni di natura commerciale.
Alcuni medici hanno l’impressione che il governo cinese stia facendo di tutto per prepararsi a casi peggiori e a virus molto più letali. Il Presidente Xi starebbe raccogliendo informazioni utili sul comportamento dei suoi cittadini in tempi di crisi e sulle reazioni dei paesi stranieri. Probabilmente ha fatto di necessità virtù. Preoccupato che la popolazione possa pensare che il governo non faccia abbastanza e nasconda molto, ha imboccato la strada esattamente opposta.
E la cosa sembra funzionare sul piano politico, almeno per ora. La gente apprezza i suoi notevoli sforzi di contenimento dell’epidemia e il suo potere si è consolidato. Nella lotta contro il virus, la Cina si è unita ancora di più.
Probabilmente Xi si è già fatto un’idea del danno economico, auto-imponendosi anche qui obiettivi ambiziosi: raddoppiare i risultati reali tra il 2010 e il 2020. E malgrado una crescita di “solo” il 5,4% quest’anno, l’obiettivo sarà comunque raggiunto e non ci sarebbe da sorprendersi se, tirate le somme, venisse persino superato. Dopotutto, Xi può sempre allentare di nuovo le redini. E nessuno nella comunità internazionale potrebbe accusarlo di non aver fatto abbastanza.
L’impegno di Pechino non ha però dissuaso i politici americani dall’usare il virus nella lotta di potere tra Cina e Stati Uniti. In modo del tutto unilaterale e contro il parere dell’OMS, Washington ha ora messo la Cina sullo stesso piano dell’Afghanistan, dell’Iraq e della Libia, cioè paesi in cui, secondo la Casa Bianca, “sono probabili rischi mortali”: non è affatto “un gesto di buona volontà”, ha commentato un portavoce del governo di Pechino.
Milioni di cinesi hanno espresso indignazione sui social media anche per una dichiarazione del Ministro del commercio statunitense, Willbur Ross, secondo cui il virus “contribuisce ad accelerare il ripristino di più posti di lavoro in Nord America”. Un portavoce del suo ministero ha poi aggiunto che, per quanto sia fondamentale combattere prima di tutto il virus, è anche “importante menzionare le conseguenze dei rapporti commerciali con un paese storicamente noto per la sua tendenza a nascondere alla sua gente e al resto del mondo i rischi reali di circostanze come questa.”
Pare comunque che i mercati azionari americani siano rimasti indifferenti sia alla reazione della politica statunitense che alla stessa epidemia. Al contrario, l’indice Hang Seng di Hong Kong si è inizialmente mosso al ribasso, anche se quest’ultimo crollo non si discosta molto dalle ampie oscillazioni registrate negli ultimi mesi. Il 4 dicembre, il 10 ottobre e il 3 settembre, il livello minimo era stato addirittura inferiore a quello del 31 gennaio, cioè il punto più basso raggiunto dopo l’insorgenza della malattia.
Da allora la parabola è tornata a salire. L’indice azionario statunitense Dow Jones Industrials e quello tedesco DAX hanno toccato in questi giorni i loro massimi storici. Evidentemente quindi i mercati presuppongono che il virus sia solo un breve fenomeno temporaneo. Alla stessa conclusione è giunto anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che definisce l’andamento attuale un provvisorio tracciato “a V”. Naturalmente questo non è il momento più opportuno per acquistare un’auto, ma altrettanto naturalmente le vendite riprenderanno non appena l’orizzonte si farà più limpido.
Anche confrontando questo virus con quello della SARS, una battuta d’arresto duratura sembra improbabile. Mi ricordo di come, 17 anni fa, l’epidemia di SARS era sparita in tarda primavera con la stessa rapidità con cui aveva colpito la Cina. In effetti, le statistiche economiche di quel periodo mostrano un breve e brusco crollo. Durante l’epidemia di SARS del 2003, ad esempio, le vendite al dettaglio nel mese di maggio erano più che dimezzate rispetto al 9,2% dell’anno precedente, ma già a giugno erano tornate all’8,3% e addirittura al 9,8% a luglio. L’intero anno si era concluso con un leggero incremento dall’8,8% del 2002 al 9,1%. Anche la crescita complessiva in Cina era diminuita di due punti percentuali, scendendo al 9,2%, nel primo trimestre del 2003, ma nel terzo trimestre i dati si erano ripresi e per l’intero esercizio la crescita si era attestata al 10% rispetto al 9,1% del 2002. La domanda, a cui ovviamente non si può rispondere, è: a quanto sarebbe ammontata la crescita senza SARS?
Oggi la situazione dell’economia cinese è difficilmente comparabile a quella di 17 anni fa. Con il 16,5%, il contributo della Cina al prodotto interno lordo globale è attualmente più di tre volte superiore al periodo della SARS. La quota cinese nella produzione di automobili è passata dal 7 al 27%, quella nel turismo dal 3 al 20% e quella nel commercio mondiale dal 5 al 13%.
Al contempo, la Cina è diventata sempre più indipendente dal resto del mondo. Dal 2003, la ponderazione del settore dei servizi è aumentata del 12% al 54% in quella che solitamente è un’ascesa piuttosto rapida. Di conseguenza, gli effetti dell’attuale epidemia sull’economia cinese potrebbero risultare inferiori a quelli della SARS.
Al contrario, il danno per l’economia internazionale sarà verosimilmente maggiore in termini relativi, perché molti paesi sono oggi più dipendenti dalla Cina di quanto non fossero allora. Ma alla fine queste considerazioni rimangono solo speculazioni. Ecco la mia opinione personale: a lungo termine, è probabile che il mercato cinese non subisca gravi ripercussioni, perché Pechino ha abbastanza margine di manovra per stimolare rapidamente un’economia in calo. Il che aiuterà a sua volta l’economia globale, come già successo nel 2008/9, quando il programma congiunturale della Cina ha rimesso in piedi il mondo intero. Ecco perché il virus è un problema relativamente gestibile.
Profilo personale: Frank Sieren è giornalista economico e autore di libri, nonché corrispondente in Cina da circa 25 anni.
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