02.02.2022 -
Il regime comunista cinese sta destabilizzando gli investitori con interventi sempre più drastici nel ciclo economico e la severa regolamentazione di alcune aziende.
È iniziato tutto nel novembre del 2020, poco prima della prevista entrata in borsa della società fintech Ant Group, una ex divisione aziendale della piattaforma online Alibaba (che ne possiede tuttora una quota del 33%). Ant Group avrebbe dovuto quotarsi sui mercati di Shanghai e Hong Kong. Sarebbe stato il più grande debutto borsistico mondiale della storia con una capitalizzazione di mercato equivalente a oltre 300 miliardi di dollari US.
Tuttavia, l’operazione era stata annullata all’ultimo minuto per ordine del governo, dopo che il fondatore di Alibaba Jack Ma aveva criticato in un discorso pubblico la regolamentazione a suo avviso troppo rigida del settore fintech in Cina. Lo stesso Ma è poi scomparso dalla scena pubblica per qualche settimana.
Per il presidente cinese Xi Jinping, la critica pubblica di Ma – un magnate della tecnologia tanto ricco quanto famoso – aveva messo in discussione il monopolio del potere del Partito comunista e un simile affronto meritava una risposta forte. In quel momento, nel sistema politico è “scattato un interruttore”. Spesso si tende ad immaginare l’apparato governativo cinese come monolitico; in realtà, sebbene il sistema sia monopartitico, ci sono molte correnti e autorità che si contendono l’influenza. Alla fine però, a decidere è chi sta al vertice e gli episodi di Ma e Ant hanno dato il via libera a una severa regolamentazione delle grandi aziende tecnologiche. A quel punto, molte autorità hanno rispolverato i loro piani tanto auspicati che tenevano in cassetto.
Per prima cosa, l’attività di Ant Group è stata drasticamente limitata e la società ha dovuto avviare un enorme programma di ristrutturazione. A stretto giro sono seguite nuove regole per le piattaforme online, in particolare nel settore dell’e-commerce, finalizzate a impedire alle aziende dominanti di abusare della loro posizione di potere. Successivamente ci sono stati altri interventi, ad esempio per quanto riguarda la protezione dei dati e la sicurezza della rete.
L’ingerenza dello Stato si è poi ulteriormente intensificata. All’inizio di luglio, la app di trasporti cinese Didi, la cui offerta è paragonabile a quella della società statunitense Uber, ha celebrato il suo debutto sulla borsa di New York. A pochi giorni di distanza è partita l'offensiva delle autorità cinesi e l'azienda ha dovuto rimuovere la sua applicazione da tutti gli app store nazionali. A quanto pare era stata diffidata dal quotarsi in borsa negli Stati Uniti, ma aveva fatto di testa sua. L’intervento di Pechino ha provocato un drastico crollo del suo prezzo azionario, che per un certo periodo è sceso addirittura del 40% sotto quello di emissione.
L’ultimo a finire nel mirino di provvedimenti statali ancora più drastici è stato il settore dell’istruzione. A tal proposito va detto che durante il percorso formativo, i bambini e i giovani cinesi devono superare più volte importanti test d’ingresso che ne decretano l’avanzamento nel sistema scolastico. Prima di questi esami, l’ansia dei genitori è a mille, il che ha fatto esplodere il mercato delle ripetizioni. Ciò a sua volta aggrava le disuguaglianze fra i giovani cinesi, perché spesso le famiglie meno abbienti devono accontentarsi delle scuole più scadenti e soprattutto non possono permettersi il classico doposcuola.
Inoltre, per i genitori cinesi avere più di un figlio sta diventando sempre più costoso. Da un giorno all’altro il governo ha quindi abolito il mercato delle ripetizioni private, che negli ultimi anni era cresciuto a vista d’occhio. D’ora in avanti, il doposcuola non potrà più essere un’attività a scopo di lucro. I prezzi azionari delle società colpite hanno perso gran parte del loro valore. A metà agosto è toccato al settore dei videogiochi online, dove è stato deciso di limitare il tempo delle partite a tre ore la settimana. E per controllare che i ragazzi non rimangano troppo al cellulare, è stato introdotto il sistema di riconoscimento facciale.
Gli sforzi normativi nel settore digitale non mancano nemmeno in Europa e negli Stati Uniti. Proprio come in Occidente, anche nelle piattaforme online cinesi c’è una forte concentrazione a favore di pochi grossi provider. Secondo il China Internet Report, redatto dal South China Morning Post, nel 2020 le tre principali società nel campo dell’e-commerce servivano l’84% del mercato. Lo stesso vale per il settore dei pagamenti digitali, dominato da due aziende. In linea di principio, quindi, una maggiore regolamentazione di queste attività è più che giustificata.
A suscitare profonda incertezza fra gli investitori però sono la poca trasparenza dei processi in Cina, la velocità di implementazione delle nuove regole e soprattutto la mancanza, per le aziende interessate, di mezzi compatibili con lo stato di diritto. L’impressione è che altre misure rigorose possano cadere all’improvviso dal cielo. Cosa significa questo per gli investitori? Noi come investitori lungimiranti, ci concentriamo su imprese di ottima qualità e per “qualità” intendiamo la solidità e la prevedibilità dei ricavi futuri.
La crescita economica superiore alla media e il dinamismo del settore tecnologico cinese creano basi solide per una forte espansione, il che a sua volta esercita un impatto positivo su quello che a nostro avviso, sarà un buon andamento degli utili delle aziende ben posizionate. È questo secondo noi il caposaldo del mercato tecnologico. Al contempo però, gli esempi precedenti dimostrano come la mancanza di limiti giuridici all’ingerenza del governo possa compromettere in misura significativa la prevedibilità dei ricavi. Dopotutto la Cina non è uno stato di diritto di stampo occidentale, dove la proprietà è tutelata da una costituzione.
Ciò però non implica che il governo cinese debba per forza agire in modo completamente arbitrario. A questo proposito è utile fare un’analisi strategica della situazione. Lo scorso anno, i due colossi tecnologici del paese – Tencent e Alibaba – hanno investito oltre 18 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, concentrandosi in particolare su ambiti come l’intelligenza artificiale, l’apprendimento automatico o la tecnologia cloud. In questo modo stanno promuovendo aree particolarmente importanti per il governo nazionale, impegnato in una gara contro gli Stati Uniti per aggiudicarsi la leadership tecnologica globale. Ecco perché, secondo noi, ci sono buone ragioni per credere che la Cina non imporrà mai alle aziende tecnologiche locali una regolamentazione tale da comprometterne per sempre il potere innovativo.
È comunque evidente che le grandi piattaforme online cinesi non possono limitarsi a convertire il loro predominio in profitti a breve termine, quanto più possibile elevati, da distribuire agli azionisti. Per restare allineate agli interessi del governo, queste aziende devono continuare a investire molto tempo e denaro nello sviluppo di nuove idee e tecnologie. Si potrebbe dire che sono “condannate” a restare innovative per sempre.
Dal canto suo, il governo cinese sa bene che l’innovazione non si ottiene con la forza, ad esempio nazionalizzando le imprese o stanziando generosi budget per quelle a partecipazione statale. Se il Partito dovesse esagerare con gli interventi nel settore privato, non solo frenerebbe la propensione agli investimenti nel paese, ma potrebbe anche provocare una fuga di cervelli nel medio e lungo termine. A quel punto anche gli investitori internazionali finirebbero per voltare le spalle alla Cina.
In passato, Pechino ha sempre cercato di mantenere un equilibrio tra il controllo statale e le opportunità di sviluppo delle imprese private. Oggi non ne siamo più così certi. Dalla travagliata epoca maoista è nata una leadership collettivista. Il suo scopo era impedire a singoli individui di acquisire troppo potere applicando rigidi meccanismi di controllo – come avvenuto con la limitazione del mandato presidenziale a due legislature. Negli ultimi anni, però, Xi Jinping ha accresciuto il suo potere personale in misura esponenziale, tanto da abolire tale limitazione. Tutto questo comporta dei rischi.
Ciononostante siamo ancora dell’idea che la Cina riuscirà a mantenere il paradosso di una dittatura politica da un lato e delle libertà imprenditoriali come motore della prosperità dall’altro. Se però il paese dovesse scivolare in un altro periodo buio, in cui lo spirito imprenditoriale è gravemente ostacolato, a farne le spese non sarebbe solo il mercato azionario cinese. Questo “tail risk”, cioè un rischio estremo connesso a eventi rari, avrebbe un impatto significativo sull’intera economia globale.
In fin dei conti, calcoliamo un premio al rischio maggiore per le aziende che operano in Cina rispetto a quelle che svolgono la maggior parte della loro attività, ad esempio, in Germania o negli Stati Uniti. A nostro avviso, inoltre, la quota di società cinesi nei portafogli a orientamento globale di cui siamo responsabili non dovrebbe essere troppo elevata, in modo che eventuali misure normative imprevedibili non possano causare danni eccessivi, nemmeno nel peggiore dei casi.
Riteniamo altresì indispensabile per gli investitori considerare il rischio Cina in modo olistico, cioè a livello di portafoglio . Data l’importanza della Cina per il resto del mondo, una “glaciazione” della sua economia colpirebbe molte aziende attive a livello globale – dalle case automobilistiche all’industria manifatturiera, ai produttori di materie prime. Non sarà possibile evitare completamente questo rischio in portafoglio. Ecco perché cerchiamo di assumere in modo mirato rischi che secondo noi sono adeguatamente remunerati dal mercato. Per farlo, monitoriamo attentamente ogni sviluppo, tenendo sempre bene a mente il rischio complessivo a livello di portafoglio.
Questo articolo è stato pubblicato nell’ultimo numero della nostra rivista “Position”, disponibile in abbonamento gratuito.
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